sabato 9 gennaio 2010

Comunicare con la diversità


Quanto è difficilie parlare con uno sconosciuto, ancor più se è ai margini.

Luciano di Samosata è stato un arguissimo scrittore greco vissuto qualche secolo dopo Cristo, nei tempi non sospetti di una società che definire multietnica era dir poco, da ogni punto di vista. Nell’opera “Icaromenippo” fa dire al filosofo cinico Menippo: “Ecco che tipo di musicisti sono gli uomini, e che tipo di dissonanza caratterizza la vita in terra: non solo perché gli uomini suonano in maniera stonata, ma anche perché sono diversi nel modo di vestire, di comportarsi e di muoversi; e non riescono ad avere un’idea in comune, mai, finché il direttore d’orchestra non li caccia di scena a uno a uno, dicendo che non gli servono più: da quel momento in poi sono tutti uguali, perché regna il silenzio più assoluto e non possono nemmeno più suonare malamente quel loro concerto confuso e disordinato”.

Quanto è difficile comunicare, trovare l’accordo dei cuori umani, quel pertugio che li conduca alla stessa via, quanto è difficile parlare con chi non conosciamo, ancora di più se diverso, ancora di più se è ai margini. Nel deserto dei Tartari Dino Buzzati ha scritto: “Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.

Allo stesso modo “lentamente muore…chi non parla a chi non conosce”, ha scritto Martha Medeiros, poetessa brasiliana. Le nostre strade sono piene di persone indigenti, mendicanti, note a margine di un romanzo che scrivono i “potenti”, i dotti, i fortunati e quanti altri personaggi della commediola umana quotidiana.

La mano tesa del bisognoso è il filo di una comunicazione impari, perché figlia della umiliazione, dell’abbandono, di una società che ormai prevede fisiologicamente lo “scarto umano”. Ci siamo mai chiesti perché quella persona è lì? Semplicemente qualcuno non ha lavoro, alcuni sono figli dell’immigrazione dai paesi sottosviluppati, giunti con il miraggio, che miraggio è rimasto, di un qualche guadagno, qualcuno vive per strada da quando era fanciullo.

Poi c’è chi è finito sul marciapiede da adulto o da anziano, per il fallimento di una attività, gioco d’azzardo, alcolismo, separazioni familiari e quant’altro.

Vi si trovano analfabeti e laureati, ma al passante frettoloso e distratto sembrano tutti uguali. C’è quello più silenzioso sdraiato a terra come una cosa, quello che chiassoso prende a calci il suo dolore, quello che chiede e sorride con voce flebile. Ed ecco che a volte spunta una monetina lasciata rotolare dentro il salvadanaio della propria coscienza, dentro il salvadanaio vuoto di speranze di chi tende la mano. Ma in genere regna il sospetto, perché la strada è il luogo della diffidenza, e allora si affretta il passo di fronte a volti nuovi o che non ci ispirano, stringiamo il cappotto, ci sinceriamo della borsetta e capita anche che non rispondiamo quasi a cortesi richieste di informazioni, nel timore che dietro a quella domanda ci sia qualche inganno per derubarci.

A tanto giunge la paura, che non c’è più uno sguardo puro su ciò che ci circonda, su chi ci circonda. Manca la fiducia e occhi che vedano bene quanto vantaggio ci sia ad aprirsi agli altri, pur conoscendo la malvagità che alberga nell’uomo. Solo giocando questa scommessa possiamo trasformare noi e gli altri. Il male è inevitabile, certo, ma chi guarda con cuore puro non si lascia scoraggiare, sorride, risponde e saluta, lascia parlare gli altri e comunica con amore.

Per fortuna molte persone si fermano accanto al mendicante. In realtà non hanno in mano i miracoli, ma spesso anche solo un saluto, una voce che taglia il silenzio fragoroso del caos cittadino e il suo formicolare informe, serve a tanto. Soprattutto essi hanno considerato quell’uomo e quella donna nel bisogno come una persona con una propria dignità, dei diritti, e su tutti con una voglia di comunicare pur nella emarginazione subita o cercata.

Ci sono sorrisi e parole che valgono più di molti tesori, che fanno zampillare la fiducia vivida come le stelle d’estate e rendono la notte del cuore meno fredda e serena, e che fanno sentire i bisognosi, nel fondo di tutta la propria miseria umana, ancora vivi. Proprio la riscoperta della fiducia nell’altro serve per prevenire la violenza che supponiamo ci verrà fatta da chi è ai margini, da chi si nasconde suo malgrado nell’ombra; Sandro Penna scriveva: “Oh nella notte il cane che abbaia di lontano. Di giorno è solo il cane che ti lecca la mano”.

Se noi ci apriamo, se noi diamo, anche chi vuole farci violenza, non aspettandosi questo amore profuso, si ferma. E’rimasto sorpreso perché contava sulla nostra paura, sulla nostra fuga, su un contraccambio di violenza, e invece ha trovato una possibilità, una speranza, qualcosa di molto diverso dal male.

Discorrere con chi non si conosce non è pericoloso, certo è giusto che si educhino i bambini ad una sana diffidenza, al famoso rifiuto delle “caramelle da uno sconosciuto”, ma la paura di tutti e di tutto non va insegnata mai, perché essa li renderebbe degli adulti egoisti senza un senso di solidarietà, nell’adolescenza degli arroganti, e dei giovani poi violenti.

Sono il silenzio, la paura dell’altro, la mancanza di comunicazione e di conoscenza che generano la violenza e il sopruso, mentre un sorriso, una parola buona aprono orizzonti empatici, solidali e comprensivi. Allora serve coraggio, il coraggio di parlare, di stringere una mano, di dare una carezza e non si perde nulla perché “chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà”, come scriveva Stig Dagerman. Libertà dalla paura di amare, che non ci tolgano pure questa, per favore.

di Cesidio D'Amico

Nessun commento:

Posta un commento