
di Matteo Schianchi
Far passare il concetto che la diversità è ricchezza e attraverso la conoscenza delle varie forme di emarginazione si giunge al dialogo e all’integrazione.
di Matteo Schianchi
Tanti ragazzi tra i 20 e i 25 anni sono ancora vergini. Ma siamo veramente sicuri che il maschio italiano sia ancora da classificare al primo posto nella classifica degli esperti di sesso in assoluto? C’è chi sostiene di sì, anche se a osservare certi dati questo presunto primato sembra ormai sul viale del tramonto, diciamo come una sedia la cui prima gamba mostra già le crepe antecedenti all’ormai prossimo cedimento. Tanti maschietti neoadulti e contemporanei sono tornati ad affrontare il tema con distacco, ne hanno paura e ancora osservano il genere femminile così come un cucciolo ritira impaurito la zampa al primo contatto con l’acqua. Un sondaggio dell’ Gfk Eurisko rivela un po’ sorprendendo la platea che ben il 15 per cento degli ometti tra i 20 e 25 anni è ancora vergine. C’è qualcosa di male? Per carità no, però questi protestanti dell'atto amatorio, esseri viventi degli anni 2000, attirano l’attenzione, soprattutto perché si muovono nell’era dei Social Network, degli orari meno rigidi, della maggior libertà d’azione e locomozione, con un’ opinione pubblica ormai abituata all’abbassamento dell’ età del primo rapporto sessuale. In più vedono e sentono parlare di sesso un po’ dappertutto, segno che oggigiorno l’argomento ha perso quel velo di mistero sovrastato da un’aura indemoniata che capeggiava sulle immagini osè di trenta-quarant’anni fa. Destano curiosità tanto che al Grande Fratello li pagano per partecipare e farsi osservare come animali in razza di estinzione. In teoria, quindi, questi fattori l’età del primo contatto con le donne la dovrebbero abbassare rispetto al 1999, quando i disertori erano solo il 3 per cento, ma succede il contrario. Se una volta il non essersi ancora svezzato a un certo gradino della scala della vita era condizione vissuta da brufoloni, ciccioni e con gli occhiali a fondo di bottiglia, oggi è potenzialmente una condizione che potrebbe appartenere a chiunque. Tutta colpa della falsa informazione che riguarda le centinaia di favole preistoriche con il mondo del sesso sullo sfondo. Diventare ciechi come conseguenza della masturbazione, peccare se si fa l’amore col preservativo, essere preso quasi in giro in età scolare quando si prova attrazione per una ragazzina, tutte queste leggende hanno creato dei tabù, che puntualmente si ripropongono in età adulta. In più ci sono i discorsi improvvisati goffamente pronunciati da genitori di colore rosso vergogna e colmi di imbarazzo, ma celanti finta sicurezza dettata dall’esperienza. Basti pensare che qualcuno porta pure i figli undicenni a vedere o a farsi iniziare dalle prostitute, poi magari si lamenta se questi dimostrano, balbettanti come infreddoliti di fronte a una femmina nuda, imbarazzo, insicurezza, paura e ansia da prestazione. “Probabilmente l’aspetto culturale e sociale delle famiglie non è sufficientemente coinvolto nel sostegno a questo tema; ne si può dare la colpa ai genitori se essi stessi non sono stati aiutati nei momenti di bisogno, e andando indietro potremmo arrivare ad Adamo ed Eva – dice il sessuologo Francesco Tassiello, interpellato sull’argomento – questo tema è molto vecchio, come scrive il Professor Petruccelli, se già Sigmund Freud nel 1907 rispondeva alla sollecitazione del direttore di una rivista sociale che “la maggior parte delle risposte dei genitori fanno un’impressione così penosa che quasi preferirei che i genitori non si occupassero per nulla di queste spiegazioni; è soprattutto della scuola il compito di non eludere il riferimento alla sessualità”. Purtroppo sono passati cento anni precisi e ancora oggi le scuole non sono attrezzate e abilitate, oltre che autorizzate, a fare ciò che l’insigne maestro auspicava”. A tutti gli effetti si tratta di una nevrosi che nasce e si sviluppa nell’inconscio del bimbo prima e dell’adulto poi. “Come diceva W.Reich nel suo lavoro “La funzione dell’orgasmo” – continua il Dr. Tassiello – l’epidemia di massa delle nevrosi nasce in tre tappe fondamentali della vita umana: nella prima infanzia,a causa dell’effetto pesantemente negativo della severa e prematura educazione alla pulizia; nella pubertà a causa dell’effetto della proibizione della masturbazione ed infine nel matrimonio coatto, basato su una concezione rigorosamente moralistica”. Non solo colpe ai genitori però, ma anche l’altro sesso che al giorno d’oggi, rispetto a dieci anni fa, è cresciuto in maniera esponenziale, formando un considerevole gap con la controparte di pari età. Sono meno femminili, più resistenti al corteggiamento e più inclini a una vita da single: “Un evoluzione a tutto campo – conclude il Dr. Tassiello – nell’erudizione, nelle capacità intellettive e nello specifico campo del sesso, che va a tutto svantaggio degli uomini, ormai sempre più spesso intimiditi dalle donne”.
Quanto è difficilie parlare con uno sconosciuto, ancor più se è ai margini.
Luciano di Samosata è stato un arguissimo scrittore greco vissuto qualche secolo dopo Cristo, nei tempi non sospetti di una società che definire multietnica era dir poco, da ogni punto di vista. Nell’opera “Icaromenippo” fa dire al filosofo cinico Menippo: “Ecco che tipo di musicisti sono gli uomini, e che tipo di dissonanza caratterizza la vita in terra: non solo perché gli uomini suonano in maniera stonata, ma anche perché sono diversi nel modo di vestire, di comportarsi e di muoversi; e non riescono ad avere un’idea in comune, mai, finché il direttore d’orchestra non li caccia di scena a uno a uno, dicendo che non gli servono più: da quel momento in poi sono tutti uguali, perché regna il silenzio più assoluto e non possono nemmeno più suonare malamente quel loro concerto confuso e disordinato”.
Quanto è difficile comunicare, trovare l’accordo dei cuori umani, quel pertugio che li conduca alla stessa via, quanto è difficile parlare con chi non conosciamo, ancora di più se diverso, ancora di più se è ai margini. Nel deserto dei Tartari Dino Buzzati ha scritto: “Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.
Allo stesso modo “lentamente muore…chi non parla a chi non conosce”, ha scritto Martha Medeiros, poetessa brasiliana. Le nostre strade sono piene di persone indigenti, mendicanti, note a margine di un romanzo che scrivono i “potenti”, i dotti, i fortunati e quanti altri personaggi della commediola umana quotidiana.
La mano tesa del bisognoso è il filo di una comunicazione impari, perché figlia della umiliazione, dell’abbandono, di una società che ormai prevede fisiologicamente lo “scarto umano”. Ci siamo mai chiesti perché quella persona è lì? Semplicemente qualcuno non ha lavoro, alcuni sono figli dell’immigrazione dai paesi sottosviluppati, giunti con il miraggio, che miraggio è rimasto, di un qualche guadagno, qualcuno vive per strada da quando era fanciullo.
Poi c’è chi è finito sul marciapiede da adulto o da anziano, per il fallimento di una attività, gioco d’azzardo, alcolismo, separazioni familiari e quant’altro.
Vi si trovano analfabeti e laureati, ma al passante frettoloso e distratto sembrano tutti uguali. C’è quello più silenzioso sdraiato a terra come una cosa, quello che chiassoso prende a calci il suo dolore, quello che chiede e sorride con voce flebile. Ed ecco che a volte spunta una monetina lasciata rotolare dentro il salvadanaio della propria coscienza, dentro il salvadanaio vuoto di speranze di chi tende la mano. Ma in genere regna il sospetto, perché la strada è il luogo della diffidenza, e allora si affretta il passo di fronte a volti nuovi o che non ci ispirano, stringiamo il cappotto, ci sinceriamo della borsetta e capita anche che non rispondiamo quasi a cortesi richieste di informazioni, nel timore che dietro a quella domanda ci sia qualche inganno per derubarci.
A tanto giunge la paura, che non c’è più uno sguardo puro su ciò che ci circonda, su chi ci circonda. Manca la fiducia e occhi che vedano bene quanto vantaggio ci sia ad aprirsi agli altri, pur conoscendo la malvagità che alberga nell’uomo. Solo giocando questa scommessa possiamo trasformare noi e gli altri. Il male è inevitabile, certo, ma chi guarda con cuore puro non si lascia scoraggiare, sorride, risponde e saluta, lascia parlare gli altri e comunica con amore.
Per fortuna molte persone si fermano accanto al mendicante. In realtà non hanno in mano i miracoli, ma spesso anche solo un saluto, una voce che taglia il silenzio fragoroso del caos cittadino e il suo formicolare informe, serve a tanto. Soprattutto essi hanno considerato quell’uomo e quella donna nel bisogno come una persona con una propria dignità, dei diritti, e su tutti con una voglia di comunicare pur nella emarginazione subita o cercata.
Ci sono sorrisi e parole che valgono più di molti tesori, che fanno zampillare la fiducia vivida come le stelle d’estate e rendono la notte del cuore meno fredda e serena, e che fanno sentire i bisognosi, nel fondo di tutta la propria miseria umana, ancora vivi. Proprio la riscoperta della fiducia nell’altro serve per prevenire la violenza che supponiamo ci verrà fatta da chi è ai margini, da chi si nasconde suo malgrado nell’ombra; Sandro Penna scriveva: “Oh nella notte il cane che abbaia di lontano. Di giorno è solo il cane che ti lecca la mano”.
Se noi ci apriamo, se noi diamo, anche chi vuole farci violenza, non aspettandosi questo amore profuso, si ferma. E’rimasto sorpreso perché contava sulla nostra paura, sulla nostra fuga, su un contraccambio di violenza, e invece ha trovato una possibilità, una speranza, qualcosa di molto diverso dal male.
Discorrere con chi non si conosce non è pericoloso, certo è giusto che si educhino i bambini ad una sana diffidenza, al famoso rifiuto delle “caramelle da uno sconosciuto”, ma la paura di tutti e di tutto non va insegnata mai, perché essa li renderebbe degli adulti egoisti senza un senso di solidarietà, nell’adolescenza degli arroganti, e dei giovani poi violenti.
Sono il silenzio, la paura dell’altro, la mancanza di comunicazione e di conoscenza che generano la violenza e il sopruso, mentre un sorriso, una parola buona aprono orizzonti empatici, solidali e comprensivi. Allora serve coraggio, il coraggio di parlare, di stringere una mano, di dare una carezza e non si perde nulla perché “chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà”, come scriveva Stig Dagerman. Libertà dalla paura di amare, che non ci tolgano pure questa, per favore.
di Cesidio D'Amico