domenica 30 gennaio 2011

Magia.

sabato 29 gennaio 2011

Bollywood apre le porte alla diversità

Come cambia una delle più grandi industrie cinematografiche del mondo, che con "Maa" ha portato sullo schermo un film tutto interpretato da attori disabili. L'esempio più eclatante di una delle pellicola presentate al Festival internazionale del cinema sull'handicap di Delhi

 

Da tempo Bollywood ha scoperto che la disabilità fa parte della vita. E che attori disabili, o che interpretano personaggi con disabilità, possono emozionare e commuovere, fare piangere e far sorridere. In India si contano almeno tre pellicole di successo sul tema dell'handicap e a Delhi esiste perfino il Festival internazionale del cinema sulla disabilità. Ma non era mai accaduto prima d'ora di incontrare un film, "Maa", dove tutti ma proprio tutti, dal regista al direttore della fotografia, dagli attori protagonisti alle comparse, dal coreografo ai cento ballerini fino agli autisti e agli addetti al catering, fossero persone con una disabilità. Solo due sono le figure non disabili presenti nel cast, ma non è un caso: bisognava pur rispettare le esigenze del copione.

La pellicola è nata, come racconta il Deccan Herald, dall'incontro tra alcuni militanti della Tamil Nadu handicapped federation e il capo del dipartimento governativo che si occupa di cinema e televisione. L'intento? Denunciare, divertendo, le mille difficoltà che le persone disabili sono costrette a sopportare quando si tratta di cercare un lavoro, di trovare un alloggio o di sposarsi. Non a caso la storia è quella di un amore contrastato: lui è disabile, lei no.

Questo film è solo l'esempio più eclatante di un'industria cinematografica che negli ultimi anni ha prodotto più di una pellicola di successo sul tema dell'handicap. "Guzaarish" racconta la storia d'amore tra un paziente paraplegico e la sua infermiera. L'attore Shahruk Khan in "My name is Khan" ha interpretato talmente bene il ruolo di un ragazzo autistico da essere paragonato al Tom Hanks di "Forrest Gump" o al Dustin Hoffman di "Rainman". Ma avviene anche il contrario, e così in "Shadow" l'attore non vedente Naseer Khan ha perfino rifiutato lo stuntman. Immersioni subacquee, guidare un'automobile in fiamme, saltare dal trentottesimo piano: nessuna scena d'azione gli è sembrata eccessiva. Perché, come lui stesso ha rivelato in una intervista alla Bbc: "La parola impossibile non esiste nel mio dizionario". Per dirla con i Blues Brothers: quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare.

Fonte: Superabile.it

mercoledì 26 gennaio 2011

Biografie di illustri sconosciuti

Doria Shafik

Mansura (Egitto) 1908 – 1975

Scritta da Cynthia Nelson, direttrice del dipartimento di sociologia dell’Università Americana del Cairo, la biografia di Doria Shafik è stata pubblicata nel 1996, quasi vent’anni dopo la morte tragica di questa donna eccezionale. Doria Shafik era una scrittrice, poetessa e giornalista laureata in filosofia all’università della Sorbonne di Parigi, scriveva poesie in francese ed era un’attivista del movimento femminista e politica. Il suo caso dimostra ancora una volta quanto la scrittura può restituire la vita e la parola persino a chi l’ha persa.
Doria Shafik naque a Mansura, una città del Delta egiziano, il 14 Dicembre 1908, in una famiglia dove non mancavano contraddizioni di tutti i generi, spesso difficili da capire per una mente infantile. Sua madre proveniva da una famiglia benestante che si impoverì dopo la morte del padre; così fu data in matrimonio ad un impiegato del governo, un uomo giovane e affettuoso che contava solo sulla sua busta paga per mantenere la moglie e i bambini. Doria viveva allora in una famiglia allargata, con la mamma, la nonna e la zia, le quali trascorrevano a casa loro sei mesi all’anno per poi andarsene tutte insieme nella piccola città di Tanta dalla nonna, lasciando i figli nelle mani della tata siriana e di un battaglione di domestici, compreso un eunuco.
Le lunghe separazioni dalla mamma rendevano la bambina inquieta e vulnerabile. Le differenze di classe sociale, di razze, di modi di fare che aveva notato a casa intorno a sé dalla più tenera infanzia acuivano in lei un sentimento d’incertezza che le rimase vita natural durante, insieme ad una comprensione prematura ma profonda dell’umanità intrinseca che accomuna tutte le persone, al di là delle differenze.
Nel 1915, all’età di sette anni, la bambina fu mandata a scuola dalle suore di Notre Dame des Apôtres, a Tanta, dove abitava dalla nonna. Purtroppo Doria perse la sua mamma nel 1920 all’età di dodici anni e fu mandata nel 1923 a casa di suo padre, ad Alessandria, dove fu iscritta alla scuola delle missionarie di Saint-Vincent de Paul, scuola considerata tra le migliori d’Egitto. Iniziò allora a vivere in un ambiente cosmopolita dove tutte le notizie provenienti dal mondo intero circolavano liberamente. Fu allora che Doria sentì parlare di Huda Shaarawi, e delle vittorie del movimento femminista egiziano.
Nel 1928 Doria scrisse una lettera a Huda Shaarawi, si recò al Cairo per incontrarla e ottenne con il suo aiuto una borsa di studio del ministero dell’educazione per continuare i suoi studi a Parigi. Inoltre, Huda Shaarawi la invitò a fare un discorso all’Unione femminista egiziana il 4 maggio dello stesso anno. Nel mese di Agosto, Doria partì per la Francia per studiare filosofia alla Sorbonne. Ottene la Licence d’Etat e la Licence Libre nel 1933 e tornò a casa di suo padre ad Alessandria dove, data la sua notevole bellezza ed eleganza, partecipò al concorso di Miss Egypte.
Dopo un breve e infelice matrimonio con un giornalista egiziano che non riuscì a sopportare per più di un anno, Doria ritrovò in Francia un cugino che non vedeva da tempo, Nur Al-Din Raga’i, studente alla facoltà di legge a Parigi. I due giovani scoprirono di avere molte cose in comune e decisero di sposarsi a Parigi nel 1937. Dopo aver trascorso la luna di miele in Inghilterra, tornarono insieme al Cairo quando Nur terminò la sua tesi di dottorato, ma Doria dovette recarsi una volta ancora a Parigi per sostenere la sua tesi e ottenere così il proprio dottorato di stato.
L’art pour l’art dans l’Egypte Antique e La femme et le droit religieux de l’Egypte contemporaine furono i titoli delle due tesi che scrisse alla Sorbonne, e rimasero questi i soggetti principali dei suoi studi e della sua vita. Disse più tardi che voleva fare della sua vita un’opera d’arte. Cercò anche di dimostrare come un’interpretazione corretta dei versetti del Corano avrebbe liberato le donne, anziché limitare la loro libertà.
Di ritorno al Cairo, Doria iniziò a lavorare per il ministero dell’educazione. Aveva sperato di lavorare per Huda Shaarawi che aveva fondato una rivista di lingua francese, «L’Egyptienne», ma fu ostacolata dalla direttrice della rivista, Céza Nabaraui. Fu allora invitata dalla Principessa Shivekiar, prima moglie ripudiata di Re Fuad, a dirigere una nuova rivista di lingua francese, «La Femme Nouvelle». Doria accettò la proposta e iniziò anche a pubblicare una propria rivista, «Bint al Nil» (La figlia del Nilo) sempre nel 1945, e una rivista per bambini, «Al Katkout», (Il Pulcino).
L’aiuto provvidenziale di Shivekiar significava però che Doria doveva frequentare l’entourage corrotto della principessa dove si sentiva a disagio. Alla morte della sua benefattrice nel 1946, Doria si prese carico personalmente della rivista francese «La Femme Nouvelle» e continuò a pubblicare «Bint Al-Nil» grazie all’aiuto morale e materiale di suo marito, che si era affermato brillantemente nel mondo del foro.
Fu la morte di Huda Shaarawi alla fine dell’anno 1947 a farle desiderare di assumere la leadership della lotta femminista e a determinare la sua entrata nell’arena politica egiziana. Doria lesse un discorso alla commemorazione della sua protettrice, nel quale esprimeva i punti fondamentali del suo pensiero: «Questo quarantesimo giorno dalla morte di Huda Shaarawi dimostra il peso di tutto ciò che ha fatto per gli egiziani e per tutti i popoli dell’oriente. Ricordatevi di lei, perché il ricordo serve a rinforzare la fede e perché essa ha lottato per creare una società fiera e colta. Ricordatela fino a quando capirete il vostro debito nei suoi confronti. È vissuta per voi ed è anche morta per voi. Ed io mi accerterò che il nostro lutto ci serva a continuare quello che lei ha iniziato... dovete consolidare il suo ricordo lottando. Se le donne imparano a leggere e scrivere, se vanno all’università, se lavorano nei campi, se vanno nei ristoranti e se un giorno entreranno in parlamento, tutto ciò servirà a ricordare Huda Shaarawi molto meglio delle nostre lacrime e dei nostri lamenti per la sua morte.»
Da quel momento in poi, Doria iniziò una lotta ininterrotta per i diritti delle donne e per farle entrare in parlamento. Le sufragette chiedevano di partecipare alle decisioni politiche ed amministrative, dato che avevano condotto l’amministrazione delle città in tempo di guerra. E cercavano di ottenere la libertà individuale che avrebbe permesso persino alle donne ripudiate di sopravvivere in un modo accettabile nella società.
Doria ebbe due figlie, Aziza, nel 1942 e Jehan due anni dopo. Sognava per le sue bambine un futuro di giustizia, di partecipazione, di responsabilità e di libertà. Era cosciente del fatto che qualcuno doveva intervenire subito per portar avanti la lotta della leader deceduta del movimento femminista. Fu allora che Doria decise di adottare una specifica agenda. Era arrivato il momento di riorganizzare l’azione femminista ed il suo programma era semplice e chiaro.
Iniziò subito con il parlamento; nel 1951 convocò tutte le donne, vicine e lontane, a partecipare con lei ad una vera e propria occupazione della camera durante una sessione in corso, per chiedere la partecipazione delle donne alle prese di decisione e al suffragio. Doria venne allora arrestata in quanto leader delle manifestazioni, ma il processo fu rinviato sine die.
La disfatta del 1948, dovuta in gran parte alle armi avariate comprate dalle autorità egiziane, fu seguita da manifestazioni popolari antigovernative e dalla proibizione, da parte del governo della monarchia egiziana, del passaggio nel Canale di Suez delle navi dirette verso Israele. Nel 1951, queste manifestazioni divennero un fenomeno di massa, e dei “battaglioni di liberazione” si lanciarono contro le forze inglesi nella zona del Canale. Il Primo Ministro e presidente del partito Wafd, con il consenso della Camera, decise allora di abrogare unilateralmente il trattato anglo-egiziano del 1936, perché tale trattato permetteva alle forze britanniche, decenni dopo la fine dell’occupazione, di gestire il traffico del Canale di Suez senza fare riferimento alle autorità egiziane e permetteva anche la permanenza dei soldati inglesi nelle città del canale, incluse Ismailia, Port Fouad e Port Said. Gli egiziani d’altronde esigevano il ritiro completo degli Inglesi da tutta la zona del Canale di Suez, e quindi bloccarono i rifornimenti alimentari alla zona del canale. Nel Gennaio del 1952 i militari inglesi, oltre a distruggere un villaggio vicino ad Ismailia, massacrarono una cinquantina di poliziotti egiziani nel loro quartiere generale, perché questi rifiutavano di alzare le armi contro i loro connazionali insorti. Ci furono anche un centinaio di feriti. La reazione degli egiziani fu immediata, e il 26 Gennaio del 1952 le masse popolari scatenate nelle strade del Cairo bruciarono le proprietà ed altri simboli della presenza occidentale nella città. Alla fine del cosiddetto “sabato nero”, 750 mila stabilimenti erano stati bruciati o demoliti. C’erano decine di morti e centinaia di feriti. I Liberi Ufficiali, un gruppo di militari inorriditi dall’aver dovuto battersi praticamente senza armi funzionanti, decisero allora di prendere il potere, sotto la presidenza del Generale Mohamed Naguib.
Nonostante la pesantezza della situazione politica, o forse proprio per quella, Doria si sentiva in dovere di accelerare la messa in opera del suo programma femminista e politico e decise allora di presentarsi alle elezioni, seppur illegalmente, dopo aver fondato il partito delle donne, denominato “Bint al Nil”. Dopo il putsch miltare del 23 Luglio 1952, i Liberi Ufficiali decisero di abrogare la costituzione egiziana, di nazionalizzare la stampa, di abolire i partiti politici e di nominare una commissione di cinquanta uomini per mettere a punto la nuova costituzione. Doria rimase allora senza un suo partito politico, ma pur sempre convinta che il nuovo presidente della repubblica, il Generale Mohamed Naguib, avrebbe appoggiato il movimento femminista. Quando Naguib fu obbligato a dimettersi nel 1954, il nuovo presidente Gamal Abdel Nasser impose la legge marziale, la dissoluzione dei partiti, ed il rinvio indefinito delle elezioni. Le donne rimasero allora senza alcuna speranza di partecipare alla vita politica e senza il diritto di voto. Doria, insieme ad otto donne membri della sua associazione, iniziarono allora uno sciopero della fame di otto giorni nella sede del sindacato dei giornalisti, per protestare contro l’esclusione delle donne dalla commissione incaricata di formulare la nuova costituzione.
Nell’Aprile del 1955, il Presidente Nasser si recò a Bandung dove incontrò il Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru, Il Presidente jugoslavo Maresciallo Josip Broz Tito e il Premier cinese Ciu-En-Lai a Bandung. L’Egitto divenne membro del movimento dei Paesi non allineati. Un anno più tardi, la nuova costituzione egiziana entrò in vigore. Il suffragio fu finalmente concesso sulla carta alle donne, ma tutte le organizzazioni non governative furono bandite e furono tutte affiliate al ministero degli affari sociali. Un articolo della nuova costituzione limitava il suffragio delle donne a quelle fra di loro che erano educate, mentre lo stesso limite non era imposto agli uomini.
Rimasta senza partito, senza organizzazione e senza alcun modo di protestare a disposizione, Doria decise, dopo un anno di disperazione, di iniziare un’altro sciopero della fame il 6 Febbraio del 1957. L’influenza di Gandhi era notevole in Egitto. Essendo amica dell’ambasciatrice indiana, Doria decise di recarsi all’ambasciata per iniziare a digiunare senza incorrere in minacce d’arresto. Le sue richieste erano chiare e nascevano dal suo amore per la giustizia e la libertà: esigeva la fine della dittatura in Egitto, ed il ritiro delle forze israeliane dai territori egiziani occupati durante l’aggressione tripartita del 1956.
Questa volta la reazione presidenziale fu immediata. Doria, accusata di tradimento, fu messa agli arresti domiciliari. Le sue riviste, come la sua casa editrice, furono chiuse definitivamente, e tutti i suoi scritti furono distrutti. Inoltre, il suo nome fu bandito da tutte le pubblicazioni. Iniziò allora per lei un lungo periodo di reclusione nel suo appartamento di Zamalek. L’intervento di Nehru convinse Gamal Abdel Nasser a non brutalizzarla ulteriormente. Le sue colleghe del movimento femminista, ormai messe a tacere, la derisero e l’abbandonarono alla solitudine dell’esilio nella propria casa. Nasser, considerato dal suo popolo l’eroe, il principale esponente della liberazione dell’Egitto, in realtà basava il suo potere sulla repressione della parola e della libertà di agire dei dissidenti. Doria perse allora completamente la libertà che aveva desiderato tanto per se stessa e per tutto il popolo egiziano.
Fu allora che iniziò a scrivere la propria autobiografia. La scrisse ben due volte in francese, e una terza volta in inglese. Le sembrava di vivere all’inferno. Secondo Winnicott «quando si legge di individui dominati a casa, o che passano la loro vita in campi di concentramento o in uno stato di persecuzione perenne a causa di un crudele regime politico, la prima cosa che uno pensa è che soltanto poche di tali vittime rimangono creative. Questi naturalmente, sono quelli che soffrono.» Questo fu il caso di Doria, la quale scrisse volumi di poesie come Les Larmes d’Isis e Avec Dante aux Enfers. Aveva già scritto un romanzo, L’esclave Sultane, nel 1951. Scriveva per sopravvivere all’isolamento che la soffocava. Si sentiva vicina a Dante in esilio, costretta come era stato lui a creare le bolgie immaginarie del suo Inferno. Aveva imparato l’italiano per leggere La Divina Commedia:
Dante!
Compagno dell’ultimo viaggio
mia Guida e Maestro
come per te fu Virgilio
Nelle ore di sconforto
ti corro incontro
mi tieni per mano
e guidi i miei passi
...
ho imparato la tua lingua
per comprendere
l’essenza della tua canzone,
per capirti
...
Ecco che iniziamo
la discesa nell’ignoto
negli abissi sterminati
nella speranza di conoscere
oltre i muri infernali
i grandi segreti
del Cuore umano.

Nel 1961 Doria fu probabilmente informata da sua figlia delle inquietanti notizie riguardanti suoi cononoscenti, come Mary Kahil, una delle sue colleghe e amiche dei tempi di «La Femme Nouvelle», che aveva voluto fare una battuta spiritosa mentre salutava il presidente Nasser ad una festa dal nunzio apostolico, dicendo «la saluto duemila volte, quanto i due mila ettari che lei mi ha portato via», riferendosi alla riforma agraria. Tutto ciò che era rimasto di proprietà della signorina Kahil era stato confiscato all’indomani di questa infelice battuta e aveva iniziato anche lei a vivere nell’isolamento.
Lo stesso anno Muhammad Shaarawi, figlio di Huda Shaarawi, fu incarcerato per aver osato criticare il funzionamento della stessa riforma agraria, soprattutto nelle lontane montagne rocciose della Siria. Successivamente, tutte le persone che Doria aveva frequentato in passato furono sottomesse allo stesso regime di miseria. La libertà di stampa e di parola che lei rivendicava da una vita divenne anatema per lo stato egiziano.
Il potere dei servizi segreti si era esteso in tutto il paese e Doria molto probabilmente perseguitata. Nel terrore generale fu abbandonata da tutti, salvo la seconda figlia, Jehan, mentre Aziza aveva dovuto emigrare in America con il marito. A questo punto, Doria decise lei stessa di vivere in isolamento nella sua casa. Scriveva, scriveva continuamente. La scrittura, pur senza speranza di essere pubblicata, non poteva esserle negata. E persino dopo la morte di Nasser, anche dopo il 1970, scelse la solitudine, nonostante il nulla osta alla sua liberazione decisa da Anwar El-Sadat. Nella sua introduzione al volume di poesie dedicato a Dante, Pierre Seghers, un amico poeta dei vecchi tempi parigini, ha descritto in termini eloquenti questo isolamento da incubo: «A quali veri responsabili… ha pagato il suo riscatto Doria Shafik? Non importa! Idealista, appassionata, Doria Shafik, ai loro occhi, si introduceva in luoghi proibiti dove i buoni sentimenti non avevano spazio. Quelli che pretendevano di salvare l’uomo dalla sua miseria da secoli si dedicavano in realtà a schiavizzarlo e a perseguitarlo ancora di più. La GIUSTIZIA, l’ASSOLUTO, la LIBERTÀ, l’AMORE, l’INFINITO, la VERITÀ, la BELLEZZA, ll BENE, di quanti battaglioni blindati disponevano queste nozioni astratte? Per scongiurare i drammi del tempo e del sangue, Doria Shafik continuava a proclamarle. Era diventata coscienza, uno sguardo implacabile, insostenibile. Una voce che parlava a nome di tutti. I Poteri non potevano più tollerarla. “Non ci sono suicidi, ci sono soltanto assassinii!” Queste parole di Pierre Reverdy sarebbero quì da meditare.»
Doria accettò di viaggiare all’estero soltanto per vedere il figlio di Aziza, nato in America. Al Cairo, viveva ormai per la piccola Nazli, figlia di Jehan, che andava a ritirare dalla scuola tutti i giorni, e con la quale chiacchierava molto, raccontandole le leggende dell’Egitto antico. Non cercava più di riallacciare i rapporti con le altre persone. Faceva quotidianamente delle camminate lungo il suo amatissimo Nilo, ma nella sua intensa vita interiore scendeva insieme a Dante negli inferi dei ricordi feriti, fino a chiedersi con grande sgomento se avesse sbagliato tutto, lei che aveva voluto fare della propria vita un’opera d’arte. I dubbi la torturavano. Nonostante la liberazione concessa dal Presidente Sadat gli occhi, le orecchie spietate che aveva sopportato a lungo attorno a sé le sembravano tuttora presenti e la terrorizzavano. Aveva scelto l’esilio interno per sfuggire alla claustrofobia.
Jehan dovette trascorrere l’ estate in Inghilterra per sostenere la sua tesi di dottorato nel 1975, e portò con sé la sua bambina. Al suo ritorno, nel mese di Settembre, trovò Doria molto stanca, agitata, irrequieta. Diceva che aveva finito di scrivere, che aveva messo tutti i suoi scritti in ordine in un baule. Un giorno, prima di rendersi al lavoro, vedendola molto fragile, Jehan le infilò al dito un suo anello incastonato con una turchese, dicendo che le avrebbe portato fortuna, e Doria rispose semplicemente «Sei la mia anima, Jehan». L’indomani, recatasi a casa di sua madre, Jehan trovò nel giardino un corpo ricoperto con un lenzuolo e circondato da una cerchia di persone. Era Doria. I pareri riguardanti questa morte sono divisi. C’è chi dice che si buttò lei stessa dal balcone, chi pensa che abbia avuto un capogiro mentre guardava sotto casa, e chi pensa addirittura che sia stata spinta a saltare.
Le donne egiziane hanno ottenuto il diritto di votare grazie al sacrificio di questa donna bella, colta e raffinata, testarda amante della giustizia, della verità e della libertà, come testimonia questa poesia dei tempi passati intitolata Sans Poids:
- Dove sono i suoi bagagli
Madame… che fa il giro del mondo?
- Non ne ho.
Vede.. io viaggio
così senza meta
senza peso!
il cuore sulla mano
Ascolti... eccolo!!
Ma faccia attenzione
è di cristallo.
Il potere della parola scritta ha trionfato anche per Doria. Come diceva l’amico poeta, Pierre Seghers: «Inseguita, dilaniata, intrappolata dal tempo, la devastazione non le avrebbe però portato tutto via. Il destino Tragico... non poteva centrare la parola.»

Sania Sharawi Lanfranchi

lunedì 24 gennaio 2011

sabato 22 gennaio 2011

'Between Bears', una fantastica animazione di Heran Illeli

Quando ho scoperto questo breve corto di animazione -http://vimeo.com/13776542 -  sono rimasto estasiato. Between Bears, vincitore nella categoria Animation dei Vimeo Festival Awards, è il viaggio nella vita e nella morte di una comunità di uomini-orsi.

L’autore si chiama Heran Illeli e vive a Tel Aviv. Questo è il lavoro con cui si è laureato alla Bezalel Academy of art and design. Ciò che mi ha colpito, pensando al lavoro di uno studente, è la straordinaria resa plastica dei corpi, il respiro, il battito della loro presenza nello spazio.

Contribuisce a creare il ritmo sottile e delicato di una narrazione che, ancor prima di essere capita vuole essre vista, sentita, esperita, la colonna sonora originale di Ori Avni, performata insieme a Daniela Spector. Musicisti con cui Illeli condivide il suo percorso creativo. Per lui Between Bears è una sorta di “pagamento del debito nei confronti della sua infanzia e delle altre vite che spera di poter aver vissuto”.

nabis

http://eranhilleli.com/

mercoledì 19 gennaio 2011

Dan Duryea, il biondo cattivo

DAN DURYEA, IL BIONDO CATTIVO*

Io vengo dal paese dei morti,

il paese dei tasti “meno” schiacciati…

quelli e sempre quelli!

delle ali di farfalla inchiodate,

delle male parole ai buoni

e gli osanna ai malvagi.

Dan Duryea*, il biondo cattivo

dei film western con James Steward,

nella realtà era un uomo molto buono.

Io vengo dal paese dei morti

dove il maledetto è amato

e al criminale vien dato il premio,

mentre nella corsa sul chilometro

il male ha sempre almeno

trecento metri di vantaggio

e il bene viene preventivamente azzoppato.

Dan Duryea, il biondo cattivo

dei film western con James Steward,

nella realtà era un uomo molto buono…

Io vengo dal paese dei morti, fratello,

tu da quale paese vieni?

-

* Dan Duryea, attore americano: 1907 - 1968

sulla sua lapide c’è scritto:

“A man everybody loved”

(Un uomo amato da tutti)

(Maggio – 2007)

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Nota: Non da oggi, in Italia necessita un cambiamento culturale alla radice.

Oltre a recuperare la nostra cultura e la nostra storia, dobbiamo

impegnarci a dare "altri" valori ai nostri giovani rispetto a quelli

offerti negli ultimi quarant'anni.

A questo proposito, ritengo che insegnare e pubblicare anche a livello

popolare un filosofo come Ralph Waldo Emerson,

un poeta come Henry Longfellow

e un po' tutti gli autori del Trascendentalismo americano

fino ad oggi criminalmente censurati e ignorati

sarebbe un gran passo in avanti.

Credo che sulla cultura ci si possa effettivamente confrontare.

(e. b.)

martedì 18 gennaio 2011

Arte di strada con i chewing gum. Nuovi lavori di Ben Wilson

 

Negli ultimi sei anni un artista a Londra ha lavorato nell’ombra, dedicandosi a realizzare pezzi minuscoli. Oggi la BBC gli dedica un’intervista. Ben Wilson ha dipinto su vecchie e dure gomme da masticare attaccate al marciapiedi. Ogni gomma calpestata e secca è un pezzo unico, che può richiedere da un minimo di un’ora a un massimo di 10 ore per essere finita.

Aveva iniziato quasi per caso nel 1998, ma è dal 2004 che ci si è dedicato completamente. Una volta trovata la gomma su cui dipingere, Wilson utilizza una fiamma ossidrica per scaldarla leggermente e renderla maggiormente permeabile al colore (delle speciali vernici acriliche). I suoi soggetti preferiti sono principalmente paesaggi, ma anche icone e simboli. Due volte è stato arrestato, l’anno scorso mentre dipingeva lo stemma della City of London Police. Oltre a produrre le proprie composizioni, negli ultimi tempi Ben Wilson accetta anche lavori su commissione. La Royal Society of Chemistry gli ha infatti recentemente chiesto di dipingere rappresentazioni di ciascuno dei 118 elementi conosciuti.

Ad oggi ha dipinto, sdraiato per terra, circa 10 mila chewing-gum. La maggior parte si trovano nel Regno Unito e in Europa, ma pochi mesi fa è stato anche Corea del Sud, dove i media gli hanno riservato ampio spazio. Certo, bisogna ammettere che a livello squisitamente artistico Wilson non è poi così bravo, ma la sua idea è sicuramente intrigante.

benwilson5

nabis

sabato 15 gennaio 2011

Arcologia

Paolo Soleri è un architetto nato a Torino nel 1919. Dalla seconda metà degli cinquanta, per seguire gli studi di Frank Lloyd Wright, si è stabilito negli Stati Uniti. Nel deserto dell’Arizona a parire dal 1970 ha fondato Arcosanti, un laboratorio urbano in cui si studia arcologia, la disciplina che tiene insieme architettura ed ecologia. Qui Soleri pone le basi per ripensare l’architettura urbana, riducendo al minimo il suo impatto distruttivo sulla terra.

Tra le varie forme di finanziamento dei suoi progetti, da più di cinquant’anni Soleri produce le sue Windbells, campane del vento dalle forme delicate e futuristiche. Sono campane in ceramica, bronzo e rame, disponibili in una grande varietà di forme e dimensioni. Col tempo sono divenute degli oggetti di culto negli appassionati di design statunitensi ed adesso vengono vendute dalla sua ditta, la Cosanti per poco più di venti euro. Discorso a parte va fatto per le Cause Bells, il cui ricavato va a favore di nobili cause ambientali e per le campane realizzate assemblando più materiali e oggetti di recupero. Sono pezzi unici, più grandi rispetto alle normali campane, che costano diverse migliaia di euro.

Oggi Soleri continua a sviluppare il core della sua città, quell energy apron (letteralmente ‘grembiule di energia’) per gli edifici maggiormente esposti al sole (esposti a sud), importantissimo nella produzione di cibo e nella produzione di energia. Nel 2000 sono arrivati anche i primi grandi riconoscimenti per lui: il Leone d’oro alla Biennale di Architettura di Venezia e nel 2006 il Cooper Hewitt National Design Award.

Lorenzo Mazza

lunedì 10 gennaio 2011

Graffiti sonori

Graffiti sonori è il nome di un progetto ad opera di due street artist spagnoli, Eltono e Nuria. Si tratta di un’installazione sonora per le vie della capitale iberica che cerca di tradurre, trasferire, l’impatto visivo dei graffiti su un altro supporto.

Una serie di registratori nascosti pronunciano delle tag. I passanti a volte non ci fanno nemmeno caso, a volte sentono dei suoni, sono voci di uomini in carne ed ossa che pronunciano strane parole. Cambia il mezzo ma resta la sorpresa, un nome, un suono, spuntano all’improvviso, inaspettati. Le voci sono quelle di artisti di base a Madrid.

Per quanto la documentazione dell’operazione non renda al meglio l’idea, è interessante ragionare a livello concettuale sulla presenza, sulla potenza di ciò che occupa lo spazio pubblico in maniera spontanea, senza preavviso.

Nabis

http://www.youtube.com/watch?v=1ayzEphqhXU

venerdì 7 gennaio 2011

Nancy Agabian alla Gerome Zodo Gallery : classmate al femminile

“F classmate” è un progetto curatoriale interamente dedicato all’universo femminile di live performance, inaugurato lo scorso maggio 2010 presso la galleria Jerome Zodo Contemporary di Milano. Il 10 gennaio prossino in scena l’artista/scrittrice di origini armene Nancy Agabian con una performance del tutto particolare, che mi ha colpito per gli aspetti narrativi.

Si tratta di Family Returning Blows una transnational, transhistorical love story/slapstick comedy incentrata sul tema della violenza domestica che la Agabian interpreta individualmente. Mixando elementi autobiografici, resoconti di notiziari, immagini prese da Facebook con espressioni linguistiche armene, il risultato è un’esplorazione dei conflitti di genere per arrivare alle tensioni politiche mondiali. La storia si svolge fra New York City e Yerevan: comuni scatole per esche riempite di violenza - dai vicini del piano di sopra alle politiche presidenziali - racchiudono il senso di un mondo parallelo fatto di voce, immagini proiettate, sostegni fatti a mano che la performer crea.

Nancy Agabian nasce nel 1968 a Walpole in Massachusetts. Il suo lavoro spazia dalla scrittura, al canto, alla performance, all’insegnamento. Il filo conduttore della sua produzione sono ironiche allegorie del quotidiano: personaggi diversi personaggi (armeni, donne, omosessuali ed eccentrici) che messi in scena sono il racconto di un sé collettivo perché trovano le proprie radici nella storia (evidenti, ad esempio, i riferimenti al genocidio armeno e all’azionismo femminile degli anni cinquanta nell’America conservatrice).

penelope di.pixel.

giovedì 6 gennaio 2011

Il mistero dei cadaveri senza testa

Le ritrovarono sette anni fa. In un giardino di York a poche decine di chilometri dal Vallo di Adriano. 80 tombe di epoca romana con i resti di altrettanti cadaveri dilaniati dai morsi di bestie feroci e, in molti casi, con le teste mozzate. Uomini. Età compresa tra i venti e i trent’anni. Ossa forti, corpi lunghi, lesioni, fratture. Tutti seppelliti con cura, alcuni con corredo funebre, i corpi adagiati sulla nuda terra e i crani posti accanto ai piedi, forse in memoria del loro atroce destino.
Ne avevano parlato tutti i media. E il mistero dei cadaveri decapitati aveva lasciato senza fiato anche il mondo accademico.
Tante le ipotesi. Legionari caduti in un imboscata, vittime di strani sacrifici, cristiani messi a morte nel più feroce dei modi. Una sola certezza: quella ritrovata a York era una necropoli inquietante in un Inghilterra che fatica a trovare le tracce del passaggio e dei resti di epoca romana. Una necropoli inquietante cui bisognava dare un senso. Una giustificazione.
Troppe le “tracce insolite” di quelle raccapriccianti sepolture: nessun legionario seppellito con la sua armatura, nessun ricco proprietario sepolto con i consueti oggetti della sua ricchezza, nessuna matrona con i suoi gioielli. Circa 80 corpi di maschi adulti, di notevole altezza per l’epoca, robusti, alcuni provenienti dall’Africa settentrionale. E un solo indizio concreto:  l’avambraccio destro di molti di quegli uomini era più lungo di quello sinistro. Caratteristica tipica degli uomini cresciuti ed allenati per svolgere il possente ruolo di lottatori.

Per sette anni quelle ossa ritrovate a York sono state analizzate, fotografate, sottoposte ai raggi x. Alla fine tanto lavoro viene premiato. Un nuovo indizio apre un affascinante scenario. Sulle ossa di alcuni di quei cadaveri c’è una strana “incisione”. Proprio sull’avambraccio. E’ un morso. Il morso di una belva feroce. Un orso, una tigre. Forse un leone. Bingo!
Kurt Hunter-Mann, membro della York Archeological Trust che dirige le ricerche, non ha dubbi: quel morso è la prova che stava aspettando da anni. E’ l’indizio che conferma la prima ipotesi, quella che ebbero tutti. A pelle. Ma che non era mai stata confermata. Quegli uomini erano dei gladiatori. Uomini coraggiosi che combattevano contro bestie feroci per il divertimento malato della loro gente. Da qui il passo è breve. Anche a York era stato edificato un anfiteatro per “intrattenere” i Romani stanziati nell’isola limite nord dell’Impero.

Fondata nel 71 d.C come avamposto militare, la cittadina crebbe di importanza strategica e commerciale nei due secoli successivi, diventando anche dimora degli imperatori in visita nella Britannia. Ora il ritrovamento di questo 80 gladiatori non fa altro che dare ancora più lustro alla zona, dimostrando quanto l’importanza di York sia ancora maggiore di quanto ritenuto fino ad ora.
La necropoli rinvenuta ha un enorme importanza anche perché attesta una procedura finora non sostenuta da prove archeologiche. Le fonti antiche ci tramandano l’usanza della “iugula” richiesta della folla nel caso di sconfitta di un gladiatore. Equivaleva ad una messa a morte. Veniva inflitta con un colpo di spada dalla gola al cuore. Tale pratica è testimoniata dal ritrovamento dell’unico cimitero di gladiatori fino ad ora conosciuto: il cimitero di Efeso, in Turchia. La pratica della decapitazione non è invece attestata da  nessun ritrovamento e le fonti antiche tacciono su questo punto.
Esperti lottatori morti atrocemente dopo aver tentato di esprimere il loro valore,  dopo aver cercato di procrastinare una fine già scritta della quale erano consapevoli. “Ave cesare morituri te salutant”: pronunciavano in coro all’ingresso nell’arena.

di Michela Ascione

lunedì 3 gennaio 2011

Scrivere sulla diversità

Delia Vaccarello ha scritto e scrive su omosessualità e transgenderismo, ha curato le antologie "Principesse azzurre" e successive uscite per la Oscar Mondadori e ora con "Evviva la neve" ha scritto invece di transessualità. Nuovasocietà ha scambiato due parole con lei, sulla scrittura e sulla diversità.

Vuoi presentare il tuo ultimo libro e spiegare perché ti occupi di transgenderismo, argomento tabù anche presso certi ambienti omosessuali?

Ho compiuto un viaggio appassionato scrivendo "Evviva la neve, vite di trans e transgender", e ho voluto prendere il lettore per mano portandolo dove altrimenti non sarebbe giunto, visitando le persone in attesa dell'operazione, indagando sul dopo, entrando in luoghi di lavoro, blog, famiglie. Al centro della mia ricerca c'è il concetto di rinascita, chi adegua il corpo al genere sentito come proprio spessissimo è spinto da un fortissimo sentire, la persona trans non è un corpo muto come vorrebbero il pregiudizio e la morbosità, non è quello che ci hanno mostrato con il caso Marrazzo. La transessualità è una vicenda umana che ci riguarda, perché allargare l'area del nostro sentire vuol dire essere più libero.

Cosa vuol dire, in termini di difficoltà ma anche di vantaggi, scrivere di omosessualità e transessualità, in un Paese come l'Italia che non riconosce queste realtà per una serie di ragioni?

Non c'è nessun vantaggio. Campeggia un grande rischio, il pericolo che il pregiudizio, che ama etichettare e non comprendere, spinga a creare categorie che azzerano l'impatto del messaggio. Così un autore che si occupa di temi scomodi viene spesso liquidato come autore di nicchia.

Insegni media e cultura della differenza alla scuola di giornalismo di Bologna: in che cosa consiste la tua materia e come è importante per formare i nuovi professionisti dell'informazione?

Cerco di far comprendere il valore di concetti come "orientamento sessuale" e "identità di genere". Si tratta di concetti che illuminano il vivere di ciascuno e devono far parte del bagaglio di chi si occuperà di informazione. Spesso diciture come "mondo gay", "realtà trans" congelano la narrazione di un fatto veicolando sottotesti che sono frutto di stereotipi. Di recente abbiamo fatto una scoperta: in oltre dieci mesi le agenzie stampa avevano lanciato numerose notizie sotto la testatina "inchiesta trans", ma si parlava di Brenda, di pusher, di prostituzione trans. Il termine trans veniva usato come equivalente di prostituzione. Ho fatto decine di inchieste trans nella pagina Liberi tutti dell'Unità, raccontando storie, vissuti, operazioni, proposte di legge, difficoltà sul lavoro, non parlando di prostituzione. I ragazzi che domani racconteranno il mondo non devono cadere nelle trappole tese dai media oggi che deformano la realtà.

Hai curato le antologie Principesse azzurre, che parlano di donne omosessuali. Come ti sembra quest'universo, di cui si parla relativamente meno rispetto a quello degli uomini gay?

Ci sono fragilità e delicatezze che domani potrebbero diventare forze, ma che ancora adesso temono il dialogo aperto e la libera iniziativa. La paura di essere libere e coraggiose frena molte nel dare tutta la fertilità di cui sarebbero capaci.

di Elena Romanello

nuovasocieta.it

sabato 1 gennaio 2011

L’arte coi calzini

 

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Alzi la mano chi non ha almeno un calzino scompagnato all’interno dei propri cassetti… Susan Lenz, artista americana che lavora col tessuto, sta lavorando ad un progetto di arte pubblica che si chiama Looking for a Mate (Alla ricerca di un compagno) e che utilizza appunto calzini scompagnati.

Si tratta di un progetto partecipativo in cui il pubblico è invitato a portare da casa i propri calzini che vengono cuciti a mano su una base di feltro riciclato, materiale di imballaggio per canoe e kayak che la Lenz si è fatta mettere da parte. La gente impara così a cucire e pian piano nasce un’enorme trapunta artistica che porta traccia dei partecipanti.

Nabis

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