domenica 28 novembre 2010

La foto della settimana


mercoledì 24 novembre 2010

Violenza sulle donne, mattanza silenziosa

GIOCONDA violenza sulle donneAlla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza alle donne, l’associazione D.i.re, Donne in rete contro la violenza che coordina 58 centri in tutta Italia, lancia un grido disperato per fermare la chiusura dei centri e delle case di accoglienza che ospitano donne devastate da abusi e violenze. Sono Carmen, Vichi, Mariolina, Eleonora, che sono arrivate ieri a Roma, alla Casa Internazionale delle donne di via della Lungara, per testimoniare cosa succede a Palermo, Cosenza, Udine, Latina, Viterbo, e per raccontare che non sanno più come e dove accogliere donne violentate, maltrattate, picchiate e abusate, perché non sanno come pagare bollette, affitti, assistenza, per chi è costretta a scappare. Sono avvocate, psicologhe, antropologhe, operatrici che lavorano con grande professionalità e con una forza motrice al posto del cuore.

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“Da noi è tutto volontariato ormai – racconta Carmen Currò del Cedav di Messina – tu vedi professioniste di alto livello che di giorno lavorano al centro gratis e la notte fanno le baby sitter. Sono due anni che non abbiamo finanziamenti e per andare avanti facciamo sottoscrizioni, feste, però adesso siamo allo stremo”. Soluzioni creative dettate dalla disperazione di chi una mano sulla coscienza se la mette davvero, come Eleonora Baldacci del “Iotunoivoi” di Udine, che ha ipotecato la sua casa per pagare i debiti del centro, ben 100 mila euro, “e con me era d’accordo anche la mia famiglia – dice con un sorriso – non possiamo lasciare per la strada queste donne, come si fa ad abbondare una ragazzina di 12 anni abusata da tutti i conviventi della madre? Me lo devono spiegare gli Enti locali che ci stanno tagliando i fondi, che facciamo, la rimandiamo a casa? Noi accogliamo 300 donne l’anno e sono tutte situazioni tragiche”.

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Ma la guerra è guerra e queste donne non si fermeranno di fronte a un semplice: no, mi dispiace.
Al centro “Erinna” di Viterbo coordinato da Anna Magni, le donne sono soprattutto italiane e non straniere, perché il problema della violenza sessuale non è un problema di sicurezza come la maggioranza dei mass media italiani vuol far passare, e si tratta di abusi, violenze sessuali, maltrattamenti, umiliazioni fino all’urina versata sul corpo e minacce di morte, cose atroci di cui molte donne non sono neanche consapevoli perché non riescono a capire quello che stanno subendo soprattutto se sono all’interno del matrimonio. “A Viterbo – continua Anna Magni – abbiamo avuto tre casi di stupro da parte del branco ma la maggior parte sono tutti abusi in famiglia, e non avendo la possibilità di un rifugio a volte ospitiamo noi queste donne o ci autotassiamo per pagare un albergo”.

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Ma veniamo ai dati nazionali: questi centri nel 2009 hanno accolto sul territorio italiano 13.587 donne, delle quali 9.126 italiane e 3.859 straniere, per un totale di 49.158 colloqui, quasi 50.000 donne prese per mano e condotte fuori da un incubo. “La situazione più comune è la violenza in famiglia – conferma Emanuela Moroli, presidente di Differenza donna di Roma – ma adesso stiamo sfiorando il 90%, e la cosa tragica è che sono sempre partner o ex partner o anche i parenti più stretti. Figure che più sono vicine e più sono pericolose con un livello altissimo di stalking che spesso sfocia nell’omicidio. Quest’anno in 26 giorni tra ottobre e novembre sono state uccise 19 donne, quasi una donna ogni due giorni, una cosa che non succede neanche nei paesi in cui c’è il delitto d’onore. E ti rendi conto che è una mattanza, e che rispetto a questa mattanza le istituzioni e gli Enti locali sono indifferenti, anzi ostili, perché non capiscono la ragione per cui dovrebbero dare i soldi ai centri antiviolenza, e lo sai perché? perché pensano che non sia un fenomeno importante, non si rendono conto della distruzione devastante che una violenza porta in una famiglia, su una donna, sui bambini. Queste istituzioni non sono solo indifferenti, sono ignoranti”.

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Un’ignoranza che nel 2010 ha causato 115 morti tutte ascrivibili a violenze da parte di uomini, un vero e proprio femminicidio in costante aumento dal 2006 a oggi, e questi sono dati che non solo confermano l’alto rischio che le donne maltrattate corrono, ma che individuano nella società italiana il pericolo più grosso, perché il 76% degli assassini sono uomini italiani e per la precisione il 36% sono mariti, il 18% conviventi, il 9% ex, il 13% parenti. Come la ragazza di Terracina uccisa qualche giorno fa dal suo ex, un uomo agli arresti domiciliari che un anno prima l’aveva accoltellata ma che non era stato considerato pericoloso, ma allora uno si chiede: perché la ragazza è andata a casa sua? “Perché la percezione del pericolo da parte della donna è in relazione a come l’uomo viene considerato dalle istituzioni – risponde Mariolina Martelli del centro “Lilith” di Latina – se l’uomo non viene allontanato subito, o è anche ai domiciliari come in questo caso, la donna percepisce un pericolo minore e si espone, cioè si mette lei stessa in pericolo di morte. Anche se, e questo lo dico in tutta sincerità, le donne che si rivolgono al centro non muoiono, perché vengono sostenute e imparano a proteggersi, imparano a distinguere”.

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Una rete di donne, una rete di mani tese difficile da spezzare, come quelle di Vichi Zoccoli e delle sue operatrici, venute a Roma da Cosenza per dire che il rifugio del Centro “Roberta Lanzino” lo hanno dovuto chiudere perché non avevano più soldi: “E’ un dolore profondissimo vedere queste donne che ti vengono a bussare direttamente a casa perché non sanno dove andare. Una di loro, dopo la chiusura del rifugio, ha chiamato i carabinieri per una settimana, tutti i giorni chiedendo aiuto, non sa che fare né dove andare. Il rischio di queste donne è di vita o di morte, e se le donne muoiono perché non sono ascoltate e soccorse, le istituzioni si devono prendere la responsabilità di queste morti”.

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A dare un’occhiata alle raccomandazioni internazionali a sostegno dei centri antiviolenza vengono i brividi: “Devono essere assicurati finanziamenti di base sia per le istituzioni di donne che per tutte le organizzazioni impegnate nell’obiettivo di combattere la violenza contro le donne” (Risoluzione del Parlamento Europeo sulla violenza contro le donne, Doc. A2-44/86), oppure “Tutti i governi nazionali devono essere obbligati a creare e a finanziare un’offerta esaustiva e gratuita di supporto alle donne maltrattate e ai loro figli” (Forum esperti Conferenza Ue, 1999), ma poi esplode la rabbia quando vai sul blog della ministra alle Pari opportunità, Mara Carfagna, e leggi che ci sarebbero ben 18 milioni di euro stanziati per il Piano nazionale contro la violenza sulle donne e lo stalking , dichiarazioni in netto contrasto con la chiusura a domino dei centri antiviolenza, in contrasto con la realtà e il buon senso. E allora la domanda sorge spontanea: i soldi ci sono o non ci sono? E se ci sono dove sono finiti?

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“I 500 mila euro che erano stanziati per Napoli non sappiamo che fine hanno fatto”, dice Annamaria Raimondi del centro “Aurora” di Napoli. “Noi siamo l’eccellenza in Italia – spiega Annamaria – non c’è un altro centro come il nostro sul territorio nazionale. Siamo coordinate con l’Unità di psicologia clinica della Asl di Elvira Reale e il Centro clinico per i maltrattamenti in famiglia, e abbiamo il protocollo con il Centro ascolto psicologico. Tu dirai, che vuol dire? Te lo spiego, è un servizio di accoglienza psicologica al Pronto Soccorso dell’Ospedale San Paolo di Napoli, per cui quando arriva una donna violentata o maltrattata all’ospedale viene immediatamente soccorsa, sostenuta e indirizzata al centro, non solo, perché viene fatta subito una perizia da una esperta e scatta la segnalazione in Procura in tempo reale con attestazione psicologica e la sintesi della storia. Questo facciamo noi. Un servizio con una professionalità che se la sognano, e sai qual è la verità? Che se non arrivano i soldi, noi chiudiamo a febbraio”.

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Domani è la Giornata internazionale contro la violenza sessuale su donne e bambine, voluta e celebrata dall’Onu non come un giorno qualsiasi ma come una spinta ad agire sia a livello internazionale che nazionale, che punti a sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica su un’emergenza sociale troppo spesso sottovalutata e che, in realtà, rappresenta una delle più diffuse violazioni contro la persona. Lo stesso segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha dichiarato ieri come questa non sia “una commemorazione ma una chiamata globale all’azione”, sottolineando la necessità di incrementare le risorse contro tutte le forme di violenza alle donne. Dichiarazioni delle Nazioni Unite, come quella sull’Eliminazione della violenza contro le donne del 1993, e Convenzioni internazionali, come quella per l’Eliminazione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne del 1979 (l’anno del celebre “Processo per stupro” di Tina Lagostena Bassi, quanto mai attuale, di cui riproduciamo qui una scena), tutte sottoscritte dall’Italia, stanno lì a dimostrare che la violenza sessuale non è una bravata o un aspetto caratteriale di un uomo particolarmente irruente, ma una grave violazione dei Diritti umani. Rispettiamole e facciamole rispettare.

Luisa Betti

martedì 23 novembre 2010

Parlare di sesso non è scabroso


Riprendiamo un articolo di Lidia Ravera   perchè ci sembra possa essere spunto per un pacato dibattito sul rapporto donna-uomo. Buona lettura ma soprattutto riflettete.

 

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Oggi, ed è un uggioso martedì di novembre, verrà qui, a casa mia, una certa Katiuscia, con un operatore e una telecamera. Dalla voce nel telefono direi che è giovane giovane. Deve registrare, con me, una lunga intervista per una nuova trasmissione de La7:
“Maleducaxxion”. Donne in sala, donne in salotto. Talkshow femminile. Il tema mette i brividi: la sessualità. Dice: mi parli del sesso e della sessualità in generale (la Katiuscia). Chiede: perché parlare di sesso è ancora scabroso? Perché le donne non riescono a dire la parola orgasmo? Perché dicono: ho fatto l’amore invece di dire ho fatto sesso? Com’è che una donna realizzata e sicura di sè è inorgasmica? E’ colpa degli uomini? Vorrei prepararmi, perché la televisione mi costa e mi pesa, ma quando accetto preferisco fare le cose bene che arronzare. Però…
Dopo Freud non è tanto facile dire sesso a cuor leggero. La vita sessuale non è soltanto una attività cosciente, la nozione di vita sessuale, di vita libidica, ha anche una dimensione inconscia, che risale all’infanzia. Siamo tutti, uomini e donne, condizionati profondamente da occulte geometrie, da desideri inconsci, da vissuti infantili e forse addirittura prenatali.
Certo: il fine originario della sessualità è un fine di godimento, e Lacan dettaglia: “ciò a cui il godimento conduce non ha nulla a che fare con la copulazione nella sua finalità di riproduzione”, ma non si può farla troppo facile.
Le donne l’hanno conquistato con grande ritardo il diritto ad una sessualità intesa come godimento.
Grazie al dottor Pinkus che, inventandosi una certa pillolina, ha sdoganato il sesso dalla procreazione.
Come potevano aver voglia di fare sesso esseri umani che, ad ogni relazione sessuale, rischiavano una gravidanza? Soltanto quando si sono emancipate dall’obbligo riproduttivo le donne hanno incominciato a non considerare più il rapporto sessuale come un obbligo, un azzardo, una fatica, una catena che le legava al loro destino.
Il femminismo è stato il primo movimento culturale e politico a riflettere sulla sessualità. Femminile e non.
Scrive Carla Lonzi: il sesso femminile è la clitoride. Il sesso maschile è il pene. Scrive che l’orgasmo le donne non lo raggiungono attraverso la vagina, che la vagina è deputata a raccogliere il seme maschile e, eventualmente, esserne fecondate. La donna non gode procreando, l’uomo sì: il momento in cui il pene dell’uomo emette lo sperma, è il momento del suo orgasmo. La vagina è quella cavità del corpo femminile in cui, contemporaneamente all’orgasmo dell’uomo, si mettono le basi per il processo di fecondazione. Sarebbe bastato, caro Padreterno, sistemare la clitoride dentro la vagina e non fuori. L’orgasmo sarebbe stato incluso nell’atto sempre e comunque, per le donne come per gli uomini.
Ma non è stato così.
Nulla avviene per caso. Le donne, oggetto in certe culture, alla tortura dell’infibulazione, evidentemente, non lo devono provare il piacere. Per il loro piacere dipendono dall’abilità e tenerezze e empatia dell’uomo che può decidere di carezzarle in un certo modo e non semplicemente di dare l’assalto alla preziosa cavità.
Si è cercato di far credere che le donne capaci di raggiungere l’apice del godimento senza la partecipazione della clitoride sono donne mature e le altre immature, o (peggio) maschili. Ed è stato un altro modo sottile di colpevolizzare la ricerca del piacere da parte delle femmine della specie.
Parlare di sesso, cara Katiuscia, non è scabroso.
E’ difficile. Perché sono duri a morire certi stereotipi.
Il sesso, oggi, te lo tirano dietro a casse.
Non si riesce neanche a pubblicizzare un’utilitaria senza utilizzare cosce nude e richiami sessuali e doppi sensi.
Una sessualità libera e serena, invece, è lontana anni luce dal nostro vissuto quotidiano. Dalla vita reale.
Una sessualità libera e serena presuppone che le donne non siano funzioni del desiderio maschile, ma soggetti del proprio.
Era questa l’educazione sessuale delle ragazzine degli anni ’70, una educazione al protagonismo femminile.
In piazza, all’epoca, fra migliaia di donne, si scandivano slogan come “col dito, col dito, orgasmo garantito”, si intendeva legittimare la masturbazione come una delle pratiche possibili del piacere sessuale.
Si intendeva darsi il diritto al godimento…
Un rivoluzione culturale capillare.
Il diritto femminile al piacere. 40 anni dopo ci ritroviamo circondate da signorine piacenti che si danno in cambio di soldi, carriere, status sociale, provini in tivvù. E’ in atto una regressione spaventosa.
L’unica differenza fra l’inibita ragazza di ieri e la spregiudicata ragazza di oggi, è che la ragazza di oggi ha cresciuto dentro di sé una pars maschile (anche grazie al femminismo) e può usarla per investire l’altra parte, quella femminile, la sua bellezza/giovinezza, e farla fruttare. Alcune veline e affini sono il magnaccia di sé stesse, hanno incorporato il loro protettore.
Le donne continuano a dire “fare l’amore” invece che fare sesso? Meno male. Le donne, così dicendo, non intendono vergognarsi del sesso, ma includerlo in una relazione. Se, come diceva Lacan, non c’è che l’atto sessuale per stabilire un rapporto fra i due sessi, diciamo che le donne sono interessate anche all’uomo, alla persona, e non soltanto al suo fallo.

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sabato 20 novembre 2010

Biografie di illustri sconosciuti

Gina Lombroso

Pavia 1872 - Ginevra 1944

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Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872, dove il padre, il famoso antropologo e criminologo Cesare Lombroso, aveva ottenuto una cattedra d’insegnamento presso l’università locale. Nel 1878, sempre per motivi legati alla carriera del padre, Cesare e Nina (De Benedetti) si spostano a Torino assieme ai figli Gina, Paola e Ugo. L’educazione liberale e anti-conformista impartita dai Lombroso ai figli si scontra con quel clima culturale borghese che allora caratterizzava Torino. Gina è molto unita alla sorella Paola che diventerà una nota scrittrice, soprattutto di letteratura per l’infanzia, oltre che promotrice di iniziative umanitarie, fra cui le “Bibliotechine rurali” e la “Casa del Sole”. Gina e Paola crescono in un ambiente intellettuale estremamente interessante, con la possibilità di incontrare personaggi influenti del tempo. In particolare, le due sorelle verranno colpite, ancora bambine, dalla straordinaria personalità di Anna Kuliscioff, la futura fondatrice, assieme a Filippo Turati, del partito socialista italiano e della rivista «Critica Sociale». La Kulishioff, ebrea russa, era allora l’unica donna studente in medicina a Torino, oltre che madre, non maritata, di una figlia avuta dal noto esponente del movimento anarchico, Andrea Costa. Gina e Paola si impegnano subito in attività sociali, tanto da andare a lavorare con gli operai. Gina si iscriverà dunque all’università, frequentando prima facoltà umanistiche e optando successivamente per medicina. Alla fine Ottocento, Gina conosce Guglielmo Ferrero che comincerà a collaborare col padre Cesare, come coautore dell’opera:La donna normale, la prostituta e la donna delinquente. Guglielmo, che otterrà fama internazionale grazie alle sue opere di storia e ai suoi arguti commenti giornalistici, sposerà Gina nel 1901. Nel frattempo la “Dottoressa Gina Lombroso” è diventata la collaboratrice più stretta di Cesare. Ricoprirà infatti un ruolo fondamentale nelle ricerche, nella riedizione delle opere del padre e nel lavoro in clinica, occupandosi soprattutto di psichiatria e antropologia. Tuttavia, tale impegno totale professionale creerà non pochi problemi col marito e conflitti fra Guglielmo e il suocero Cesare. Nel frattempo, Gina ha due figli: Leo e Nina. Comincia anche a lavorare alla questione femminile, applicando a tale ambito la teoria lombrosiana a proposito dell’“essenza della donna”, non senza esiti contrastanti. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Gina assume come il marito una posizione interventista contro la Germania. Nel 1916 la famiglia Ferrero si trasferisce a Firenze per motivi di lavoro. Qui Gina fonda l’Associazione Divulgatrice Donne Italiane (ADDI), con lo scopo di pubblicare libelli sulle problematiche femminili, sull’educazione, sulla guerra e su questioni sociali. L’adattamento di Gina a Firenze non è facile, anzi diventerà ancor più difficile subito dopo l’avvento del fascismo nel 1924. Gina e Guglielmo saranno infatti fin da subito antifascisti e per questo controllati dalla polizia, al punto che i Ferrero Lombroso decideranno di trasferirsi nella loro tenuta di campagna, denominata l’Ulivello, a Strada in Chianti. Intanto Gina continua la sua attività di scrittrice, diventando sempre più nota all’estero che in Italia. Ma considerato l’accrescimento della sorveglianza, nel 1930 la famiglia Ferrero decide di emigrare e si trasferisce a Ginevra, dove a Guglielmo era stata offerta una cattedra di storia presso l’Institut des Hautes Etudes Internationales. Casa Ferrero a Ginevra diventa subito un centro di incontro per fuoriusciti e di ospitalità per gli antifascisti. Ma una tragedia colpisce i Ferrero: il figlio Leo muore nel 1933 in un incidente d’auto a Santa Fé nel Nuovo Messico. Gina si occupa allora dell’edizione delle opere del figlio e delle sue commedie teatrali. L’impegno di Gina è dunque profuso tra opere scientifiche (pubblicate spesso in francese), edizione delle opere del padre, stesura della biografia del figlio e cura di scritti di antifascisti. Infatti Gina preleverà e dirigerà la casa editrice “Capolago”, che diventerà uno dei maggiori centri di diffusione della cultura antifascista all’estero. Con l’inizio della seconda Guerra mondiale, Gina e Gugliemo accresceranno le loro attività politiche. Ma Guglielmo morirà nel 1942 prima della fine del conflitto e Gina lo seguirà nel 1944. Gina e Guglielmo moriranno dunque in esilio, senza poter assaporare la gioia della sconfitta del nazi-fascismo e poter dunque far ritorno in un’Italia libera e democratica, così come loro l’avevano sognata.
La produzione di Gina Lombroso è estremamente vasta; molte delle sue opere vennero tradotte in lingue straniere.

Marina Calloni

martedì 16 novembre 2010

Vivere sul Tevere con 400 euro

L'articolo seguente ci porta a fare delle considerazioni ma due mi sembrano più concrete: evitare di lamentarsi inutilmente, evitare di fare l'indignato da salotto.
La stragrande maggioranza delle persone si indigna su facebook posta articoli scritti da altri, aforismi, citazioni, opinioni politiche ma il tutto fatto comodamente davanti al pc. Sarebbe ora di alzare il culo da poltrone confortevoli, usare facebook in maniera diversa, uscire dai salotti riscaldati e indignarci in piazza , esprimere le nostre opinioni nelle sedi opportune metterci in gioco e far si che le nostre proteste abbiano una conseguenza seria e non un semplice, insulso "mi Piace"!!!!!

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Una pensione minima e una dimora lungo il fiume di Roma

67 anni, pensionato da 16. Ex custode di una sede Inail. Si chiama Franco e da due anni vive sulle rive del Tevere. Da due anni percepisce 400 euro di pensione.

Per quattordici anni, il signor Franco ce l’ha fatta a sopravvivere (perché questo non è certo vivere), ma dal 2008 si è trovato costretto a rifugiarsi su quelle sponde, a ridosso dei quartieri bene di Roma, come un barbone ‘privilegiato’, con quelle quattrocento euro…

Franco è uno dei tanti (secondo le stime Istat il 21% del totale dei pensionati italiani) che percepisce una pensione non tanto minima, quanto ai minimi termini. Sempre secondo le statistiche la metà dei pensionati del nostro Paese, circa 8 milioni di ex lavoratori, percepiscono un assegno che li classifica come ‘poveri’. E nella maggior parte dei casi, la pensione rappresenta l’unica entrata.

Non ci vuole molto a capire che, stando così le cose, smettere di lavorare inizia ad essere visto non più come il tanto agognato momento per dedicarsi a tutte le attività che prima erano state accantonate per via del proprio impiego; anzi, sembra che adesso l’approssimarsi della pensione sia vissuto non più con sollievo ma con un’ansia del futuro sempre crescente.

Il ‘garbuglio’ pensioni certamente non riguarda solo l’Italia, ma se ne discute anche in altre zone d’Europa, solo che, in Paesi come Francia, Spagna e Germania le pensioni non subiscono tassazioni di sorta, mentre, per quanto riguarda il Regno Unito, si tratta di una pressione fiscale minima.

Intendiamoci, il resto d’Europa non è certo il paradiso e determinate situazioni sociali non sono sicuramente, sotto alcuni aspetti, migliori delle nostre. Ma altre sono gestite quantomeno in maniera diversa.

La situazione odierna dei pensionati italiani sembra portarci, con una certa amarezza, a dover parafrasare un film di successo di un paio d’anni fa: “Non è un paese per vecchi” che dopo una vita passata a lavorare, con il pensiero di potersi costruire una vecchiaia tranquilla, si trovano invece a dover fare i conti con un’indigenza arrivata non annunciata e non desiderata. Una vecchiaia ‘dignitosa’, che svanisce nelle esigue cifre di un assegno mensile, che va ad infrangersi con le esigenze della vita di tutti i giorni.

Ed il problema pensioni colpisce non solo chi pensionato lo è già, ma anche tutti quelli che a breve smetteranno di lavorare nonchè chi andrà in pensione tra diversi anni – soprattutto se costoro sono precari (è di questi giorni la notizia che lo spettro di una vecchiaia addirittura senza qualcosa da mettere da parte per sopravvivere si aggira sopra le teste dei lavoratori senza contratto).

Insomma, quella fase della vita che fino a qualche anno fa veniva affrontata con una certa leggerezza d’animo, adesso ha assunto sfumature ansiogene, diventando se non proprio una preoccupazione fissa, quasi.

Nel suo appello, il signor Franco ha ammesso di non farcela più, che la brutta stagione è in arrivo e che crede di non riuscire a superarla, perché l’età avanza e perché sembra che, con il trascorrere del tempo, anche la generosità delle altre persone (travolte dalle conseguenze della crisi finanziaria che ha investito il globo) vada scemando.

Come dicevamo all’inizio, il pensionato del Tevere è, purtroppo, ‘uno dei tanti’. Il suo caso, seppure per poco, è riuscito ad arrivare sui giornali. Ma viene da chiedersi quanti altri ‘signor Franco’ sparsi per l’Italia non riescano (anche per un discorso di dignità) a parlare della loro situazione alla stessa maniera.

di : Alessia Signorelli

sabato 13 novembre 2010

Teatro


Una corte di personaggi border-line ed è subito teatro. Un
teatro speciale, costruito sulla diversità e sulla malattia. Un teatro
di corpi fuori misura nell'eccesso e nel difetto, tenuti insieme da una
specie di impudica tenerezza, che si dichiara fin dall'inizio negando
la parola, la poesia, ma sostituendole immediatamente con un altro
linguaggio, un'altra poesia. E' DelBono il regista che ci
parla della vita, quella vita del tutto aleatoria che si coniuga con la
malattia per presto sconfinare nella morte. Del resto sono proprio
malattia e morte le fonti ispiratrici di Delbono, che parte da un libro
di Harold Brodkey - Questo buio feroce - che dà il titolo allo spettacolo: il racconto di un viaggio verso la fine certa di una morte per Aids, un desiderio di finire, di sciogliersi dentro l'abbraccio cosmico della natura...

mercoledì 10 novembre 2010

giovedì 4 novembre 2010

F.G.



Francisco Goya (1746-1828) fu affetto da un'encefalopatia, dovuta ad intossicazione da piombo (elemento allora presente nei pigmenti di vari colori), che gli provocò sordità e alterazione della personalità. Dapprima la sua malattia lo ostacolò in ogni attività e fu la causa di una profonda depressione; figure da incubo popolarono i suoi quadri quando ricominciò a dipingere.

Quest'opera appartiene all'attività più tarda di Goya e fa parte della famosa serie di "pitture nere" della Quinta del Sordo, la sua abitazione privata nella campagna sulle sponde del Manzanarre, dall'artista stesso decorata. Goya, quando dipinse questa figurazione mitologica, era ormai quasi completamente sordo, solo e in preda all'angoscia di cui è testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia.
L'opera, dipinta con inedita crudezza, vuole assumere probabilmente un significato politico: Saturno che divora uno dei suoi figli sembra simboleggiare il tiranno che divora i suoi sudditi, un´ allusione dell'artista, fortemente avvilito dalle vicende politiche europee e spagnole, a Ferdinando VII.
Goya dipinse la figura mostruosa con toni grigiastri e ocra, sul corpo dilaniato del figlio spicca il rosso del sangue; la scena raccapricciante è intrisa di un' atmosfera "allucinata".

La depressione che afflisse Michelangelo (1475-1564), fu di origine psichica. Nel dipingere il volto di San Bartolomeo mentre mostra al Giudice il coltello, l'artista riportò nelle pieghe della pelle del martirio un dolorante autoritratto. I sistemi percettivo, emotivo ed espressivo di altri grandi pittori sono stati, in modo più drammatico, alterati da gravi malattie mentali, quali la schizofrenia e la sindrome maniaco- depressiva.

Gruesser et al., (1988) descrisse, quale particolare disturbo caratteristico di pazienti schizofrenici, l'anormale percezione delle facce. I volti osservati da questi pazienti potevano cambiare velocemente la loro espressione, assumendo sempre più le sembianze di un mostro: la bocca si apriva mettendo in evidenza i canini sporgenti, il naso e gli occhi divenivano più grandi, le pupille si dilatavano. Alcuni disegni o dipinti riportati da pazienti affetti da schizofrenia mettono in evidenza questa particolare caratteristica e mostrano, pur comunicando la sofferenza e le distorsioni percettive di questa terribile malattia, come la "follia" possa, in alcuni casi suggerire una "geniale" creatività artistica.


lunedì 1 novembre 2010

sokushinbutsu

I Sokushinbutsu erano dei monaci buddhisti giapponesi che, applicando una tecnica antichissima, forse importata dalla Cina, causavano la propria morte nel tentativo di divenire dei Buddha. Fin qui, niente di strano: quale religione non conta fra i suoi proseliti degli asceti pronti a tutto pur di raggiungere il Paradiso? Ma i Sokushinbutsu hanno qualcosa che li rende unici. La loro tecnica consisteva nel raggiungere uno stato di auto-mummificazione che avrebbe reso il loro corpo incorrotto e virtualmente eterno.
Tutti conosciamo le mummie egiziane, o quei corpi antichi recuperati dai ghiacci siberiani. Ma qui siamo di fronte a una vera e propria arte della preparazione della salma, mentre questa è ancora in vita.
Il procedimento era complesso e richiedeva una forza di spirito e una pazienza notevoli. Per 1000 giorni (poco meno di tre anni) i preti dovevano nutrirsi con una dieta speciale consistente in noci e semi, prendendo inoltre parte a un regime di attività fisica che eliminava ogni traccia di grasso dai loro corpi. In seguito, dovevano mangiare soltanto corteccie e radici per altri mille giorni, bevendo unicamente tè velenoso tratto dalla linfa dell’albero Urushi, normalmente usato come lacca per verniciare le tazze. Questo causava vomito e una rapida perdita di fluidi corporei, ma soprattutto rendeva il corpo troppo velenoso per essere divorato dagli scarafaggi. Infine, il monaco auto-mummificante si chiudeva in una tomba di pietra di poco più grande del suo corpo, e lì restava senza muoversi mai dalla posizione del loto. I suoi unici collegamenti con l’esterno erano un tubo per l’aria e una campana posta all’esterno della tomba. Ogni giorno il monaco suonava per far sapere che era ancora vivo.Quando la campana smetteva di suonare, il tubo veniva rimosso e la tomba sigillata. Dopo altri 1000 giorni, i monaci aprivano la tomba per controllare che la mummificazione fosse andata a buon fine.
Se i corpi mostravano una perfetta mummificazione, venivano immediatamente esposti nel tempio per l’adorazione. Spesso, però, quello che i monaci trovavano era un semplice cadavere decomposto. Anche se non erano considerati veri Buddha, questi resti venivano onorati per la loro dedizione e la loro forza di spirito.

Questa pratica sembrava estinta da secoli, finché un mese fa è stato rinvenuto un corpo di un vecchio che avrebbe tentato di raggiungere lo status di Buddha seguendo questa ricetta.






mondo macabro